Intervista a Don Sergio
Partiamo da una domanda autobiografica: chi è Sergio Messina oggi?
Pur essendo nato nel 1945, non credo di essere cambiato molto rispetto all'infanzia o alla giovinezza. Il desiderio di fare qualcosa di costruttivo e di efficace in vista di un mondo più umano, è sempre stata la mia identità. Mi vedo come uno che vorrebbe togliere tutte le sovrastrutture, gli impedimenti, i fardelli inutili di cui la vita è inspiegabilmente così piena. Non sono un rivoluzionario, ma un semplificatore, anche dal punto di vista teologico. Vorrei che tutti ci rendessimo conto che gli esseri umani sono piccole e deboli luci alimentate dall'infinito e tenero Generatore che ama ogni realtà singolarmente, con tenerezza eterna e incondizionata. Non amo complicare la vita, ma snellirla; non voglio privilegiare i gesti formali, ma quelli reali; non cerco di elaborare teorie, ma di conoscere il passato per non rivivere la realistica predizione del politico e filosofo britannico Edmund Burke che nella seconda metà del '700 ha giustamente affermato: Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Trovo difficoltà quando nel mondo come nella Chiesa, domina l'esteriorità, la ritualità e il tradizionalismo fine a se stesso. Trovo difficoltà a rimanere sereno quando ti viene continuamente inviato questo subdolo e immorale messaggio: non puoi essere sincero, non puoi dire quello che pensi, devi temere la reazione di tutti, perfino di Dio. Sono convinto che siamo su questa terra per valorizzare questa umanissima esperienza, diventando sempre più umani, nel modo più efficace e efficiente possibile, che per me vuol dire gioioso, solidale, altruistico ma soprattutto non formale, realistico, senza fronzoli inutili. Spero di lasciare questo mondo essendomi impegnato a creare attorno a me qualche piccola oasi dove si sono cercate strade nuove e si sono realizzati piccoli progetti di umanità.
Ora un cenno al tuo essere sacerdote
Per me essere prete vuol dire essere dentro all’umanità più profondamente degli altri. Vuol dire avere più spazio e più tempo per accogliere, rimanendo me stesso. Non mi sono mai sentito il mediatore del sacro, casomai dell’umano. La mia formazione, in seminario, è avvenuta nel decennio del Concilio Vaticano II. Era un periodo di cambiamento, di apertura, di speranze. Si cominciava a interpretare la Bibbia anche alla luce dei risultati della critica storica e sembrava si potessero realizzare i sogni della Chiesa dei poveri del card. Lercaro o di mons. Helder Camara. L’assemblea liturgica finalmente parlava in italiano e si impegnava ad investire se stessa nel realizzare la presenza di Gesù in mezzo a noi: nel pane, nella Parola, nella richiesta reciproca di perdono e nella condivisione dei beni. Straordinario e urgente mi pareva il messaggio presentato in Esodo e negli Atti: tra loro non ci sarà alcun bisognoso. Diventando prete sono entrato subito in crisi soprattutto perché mi si chiedeva di tacere anziché dire la verità, di adeguarmi anziché proporre qualcosa di nuovo. Non per il gusto di essere originale, ma per rispondere ai bisogni veri dell’umanità sofferente. Mi si chiedevano cose che per me non hanno senso: investire sui bambini quando agli adulti è concesso qualsiasi cosa, celebrare riti ripetitivi e mai pienamente coinvolgenti, lasciare nell’oblio quasi tutte le parole di Gesù, i suoi pressanti inviti, le sue scultoree affermazioni. Io che non mi sento un teologo, non darei la vita per una teologia piuttosto che per un’altra. Invece darei la vita per poter vivere e morire in modo umano.
Ora passiamo a quello che è stato per te l'ambito principale di presenza umana e pastorale: la sanità, o meglio il dolore
La vita, tra i tanti, mi ha fatto un dono grandissimo: ha voluto che lavorassi nel mondo della malattia e della morte. Ciò mi ha permesso di ampliare opportunità, riflessioni ed esperienze. Sono stato vicino a persone concrete a cui ho dovuto asciugare le lacrime, animare il tempo libero, celebrare in chiesa eucarestie che si adattassero ai bambini malati e agli adulti completamente persi nel dolore e nella tragedia. Mi sono dato da fare per accogliere a casa mia un po’ di parenti dei malati che giungevano dal Meridione e dalle isole. Seguire la morte di 1500 bambini mi ha spinto a evitare frasi teoriche, frasi fatte, prive di anima e privilegiare, invece, risposte concrete alle tre grandi domande a cui l’umanità dovrebbe dare risposte credibili e coerenti: perché si vive, perché si soffre e perchè si muore. Nel 1980, uscendo dalla congregazione dei Giuseppini del Murialdo, promossi, insieme ad altre persone, una comunità per minori che nell’arco di quindici anni ne ospitò, in totale, 27. Parallelamente iniziò il mio lavoro in ospedale, al Regina Margherita di Torino. Nella nostra piccola comunità trovarono accoglienza oltre cento famiglie di bambini malati di tumore, tra cui una che rimase a casa nostra per un anno intero. Mi resi conto che i cristiani chiedevano solo miracoli per continuare a credere e a fidarsi di Dio e allora decisi di offrire non risposte teoriche o teologicamente perfette, ma opportunità di diminuire il dolore, ospitandoli, ascoltandoli e riflettendo insieme sul senso della nostra vita che è inevitabilmente segnata dal limite, dalla fragilità, dai condizionamenti e dalla terminalità. Questa mole di esperienze mi ha fatto capire che non è la teologia che salva, ma l'antropologia illuminata dalla fede; non sono le risposte teologicamente perfette che risolvono i problemi, ma la vicinanza fisica, la condivisione del quotidiano, l'accoglienza incondizionata del dolore che altrimenti distrugge. Nel 1997 mi venne chiesto se accettavo di trasferirmi all’Amedeo di Savoia, ospedale delle malattie infettive. Lì per sette anni ho vissuto a contato stretto coni malati di AIDS (ne ho visto morire tanti), molti distrutti dalla droga, tutti emarginati per paura del contagio e abbandonati a se stessi per le scelte di vita intraprese. Dal 2003 fino al 2011 ho vissuto l’ultimo inserimento in un luogo segnato dal dolore e dalla disperazione: Villa Cristina, casa di cura per malattie psichiatriche, nuova opportunità per incontrare e condividere l'umanità ferita e stremata, per camminare insieme a chi farà fatica per tutta la vita, e che intanto vive ai margini e non vede spiragli di luce. A chi ha ormai buttato alle ortiche gli insegnamenti ricevuti da piccoli, perché inutili, sterili, se non dannosi. Dal 1980 ad oggi ho presieduto prima l’associazione l’Accoglienza onlus nata con l’intento di creare luoghi e spazi di solidarietà e di condivisione, soprattutto nel campo della terminalità e delle cure palliative, e poi l’associazione VO. L’A (Volontari l’Accoglienza) onlus che è intervenuta con progetti e micro realizzazioni a favore delle popolazioni più povere e disagiate del pianeta, soprattutto con la costruzione di pozzi nel Tigray in Etiopia. Quanti progetti abbiamo finanziato un po’ dappertutto, ma soprattutto in America latina e in Africa…
A questo punto, facci capire verso quali direzioni stai ora guardando, ora che hai cessato il servizio diretto in clinica
Da dieci anni mi è stato chiesto di gestire il santuario di Forno Alpi Graie, situato a 1330 metri nella Valli di Lanzo, di fare il responsabile della Caritas e di essere pastoralmente disponibile per i vari servizi religiosi delle Valli stesse. Aiutato da validissimi collaboratori e con il sostegno di tanti volontari vivo il periodo della vecchiaia come un’opportunità meravigliosa per parlare di Gesù di Nazaret e per offrire a chi lo desidera corsi biblici di approfondimento di quella miniera inesauribile che è la Bibbia. Mi viene data continuamente l’opportunità di testimoniare la mia infinita riconoscenza nei confronti del Nazareno perché i suoi discorsi sono tutti antropologicamente illuminanti e mi certificano che Dio è bontà e tenerezza. Lui non usava parole ambigue. Era immediato e credibile, sosteneva senza tentennamenti: gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date. Lui ci ha parlato della vita in modo così semplice e lineare, che mi ha dato la certezza che questa esperienza, la mia esistenza, valga veramente la spesa di essere vissuta indipendentemente dal credere in Dio e dal pretendere che Lui mi privilegi. Credo che il ruolo di Dio sia quello di illuminare sempre e comunque tutti. Lui continua ad essere Luce anche se qualcuno, per motivi che non conosciamo, non vuole o non può o non riesce ad aprire gli occhi di fronte alla sua immensità. Sì, io lo so. Tutta la vita sempre solo non sarò. Così enunciava il testo di una canzone del 1967. Ed è Gesù il vero testimone della luce del Padre. Lui mi ha insegnato a cercare sempre e solo l'umanità, ad impegnarmi a diventare più umano. Gesù chiama Simone pietra, ma anche scandalo e satana. Tutti noi siamo insieme pietra e scandalo perché questa è la condizione umana, data la nostra radicale fragilità. Non voglio pontificare sulla condizione umana, ma voglio impegnarmi a conoscerla, ad accoglierla e ad amarla spassionatamente. Perché parlo anche spesso della morte? Perché non posso amare la vita, se non amo tutto di essa, anche la morte e il lutto. Perché costruire teologie negative quando queste due dure realtà esistono, riguardano tutti e sono scritte nel nostro DNA? La morte è dono, opportunità, grazia che ci permetterà di immergerci nell’Infinito e nell’Assoluto e di illuminarci di immenso, finalmente? Il mio credo nella vita trova espressione completa nella frase di Teillhard de Chardin: Noi siamo esseri spirituali che stiamo vivendo un'esperienza umana. Ne ho la certezza assoluta.
Ma le religioni cosa dicono all'uomo? E specie ai giovani?
E’ significativa e illuminante una frase di Jonathan Swift: Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo. Ho l'impressione che le religioni non amino la vita, perchè non la conoscono; preferiscono teologizzarla senza guardarla, interpretarla senza amarla, dogmatizzarla senza accettarla. Se Dio è il Creatore, questa creazione svela continuamente qualcosa di Dio nel momento in cui noi la accogliamo, la accettiamo, e, possibilmente, l'amiamo. Se osserviamo la storia capiamo che succede sempre ciò che …può succedere. Perché allora tutte le volte sembra che capiti per la prima volta? Perchè tutte le volte che ci succede qualcosa che è già avvenuto miliardi di volte rimaniamo sbalorditi, scandalizzati, disorientati? Perchè tanto orrore per la morte se so che questa esperienza tocca tutti gli umani? Perché non accettare la vecchiaia e l’impotenza? Non posso far finta che tutto ciò non esista. O che capiti solo agli altri. Se il Maestro ha detto che Quanto avete fatto tutto, dite: siamo semplicemente servi, perché i cristiani pretendono di essere ricompensati per il bene che fanno? Perché esigono privilegi ed esenzioni? Gesù assicura ai discepoli che andrà a Gerusalemme dove verrà sì flagellato e ucciso, ma dove anche risorgerà. Perché non si accettano le due inscindibili realtà (la croce e la resurrezione) che Gesù ci ha proposto, visto che i discepoli non sono più del Maestro? Non mi consola sapere che gli apostoli e anche lo stesso Pietro non hanno voluto capire…
A questo punto Gesù reagisce…
Certo. Cosa me ne faccio di chi crede che il suo corpo è risorto, ma poi non usa tutti gli insegnamenti di Gesù in famiglia, sul lavoro, nella politica, nell'economia e nella Chiesa? E' ininfluente per me avere trovato il sepolcro vuoto se poi si vive senza la nostalgia del regno di Dio sognato da lui, impostato da lui, vissuto da lui! Non scomunicate e non sarete scomunicati è una frase che tra miliardi di anni sarà ancora valida, validissima e non potrà mai andare perduta. Sarà sempre vera. Perché allora non viene messa in pratica da coloro che credono che Dio l’ha resuscitato? Perché tanti eretici sono stati bruciati senza pietà? Perché le guerre di religione con annesse violenze e ruberie, stupri e omicidi senza limiti? Nella liturgia viene enfatizzato il Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo. Ma in concreto è così difficile individuare cristiani che non siano attaccati alla materialità e ai privilegi, agli onori e ai vantaggi che ne derivano. Non siamo discepoli di un maestro che è risorto, dopo aver dato la vita? Non è lui l’annunciatore di un messaggio che ci assicura che Dio abbatte i potenti dai troni? Non è lui che ci ha ordinato di privilegiare l'ultimo posto?
La vita al primo posto, dunque!
Sì, io prima di tutto devo vivere accogliendo la vita, così come è. Dico spesso che la vita ha tre caratteristiche: è gratuita, è bella, e benevolente, cioè piena di un nutrimento più che sufficiente per alimentarein essa le tre esperienze umane fondamentali: la sobrietà, la sincerità, la solidarietà. Noi siamo venuti su questa terra per esserne i partner. Sì, essa è sempre segnata dalla fragilità e ci imporrà inevitabilmente l’obbligo di fare l'esperienza del limite, della sofferenza, del dolore, del lutto, del tradimento, della paura, ecc. Siamo su questa terra non solo per contemplarla, ma per decifrarla e migliorarla. Il nostro impegno dovrebbe focalizzarsi sull'umanizzazione di ciò che non ci piace e ci sembra dannoso e illogico: la debolezza, la gracilità, l’insicurezza, l’impotenza, gli affanni e le angosce, inventando strade sempre nuove per rendere il limite e il male occasione di crescita, di condivisione, di conversione e di resurrezione.
Dio, quindi, alla fine non ha bisogno della religione…
La religione è per l'uomo, non l'uomo per la religione. Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani che chiedono a un anziano rabbino quando sia cominciato l'esilio di Israele. L'esilio di Israele, risponde il rabbino, cominciò il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio. Il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c'è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. E’ Itaca il sogno di Ulisse. Senza Itaca il pellegrinare di Ulisse sarebbe inutile, e forse persino dannoso. Io ho nostalgia della patria voluta da Gesù, ho nostalgia del regno di Dio e di una religione che viva il detto di Gesù così dimenticato: Vuoi che tutto sia puro in te? Condividi ciò che c'è nel tuo piatto. Nei quattro vangeli canonici la parola ekklesia c’è una volta sola e significa assemblea, non chiesa. Perché, allora, le comunità cristiane non si trovano periodicamente per permettere a tutti i battezzati di dire la propria idea, di esprimersi, di dire ciò che non va o ciò che si può o si deve migliorare? Del resto quando i primi cristiani di origine greca si domandarono cosa fare per fare memoria di Gesù, presero coscienza che lui incontrava le persone nei pranzi e lì condivideva un pane che era consacrato dalla sua parola, dalla sua vita, dal suo farsi dono a tutti, senza distinzioni. A quei pasti pochi era gli osservanti, mentre molti erano gli scomunicati, gli esclusi, i non garantiti. Loro erano i primi destinatari dei suoi messaggi. E oggi? E' il pranzo, la Grazia! Ma se appena esco da qual pranzo comincio a giudicare chi non c'era o a pettegolare su chi c'era, vuole dire che quella cena del Signore non è riuscita a sprigionare tutta la ricchezza umana che era intrinseca all'azione compiuta. Perché ci accontentiamo di protesi quando potremmo correre liberamente con le gambe per l'immenso prato della vita?
Dunque, siamo tutti chiamati a una missione sacerdotale…
Sì, io non parlerei più di vocazione, di chiamata celeste, ma solo di missione a cui sono chiamati tutti i battezzati. Con la prima si fanno distinzioni e separazioni tra le persone, si inventano privilegi ed emolumenti diversi, con la missione tutti abbiamo la stessa meta e lo stesso scopo nella vita. L'Eucarestia è un appassionato invito all’impegno di diventare più umani e di umanizzare il mondo. Uomini ricordate la vostra umanità e dimenticate tutto il resto, affermava Einstein nel 1955. Si diventa preti per riuscire a diventare più umani, ci si sposa per esprimere insieme maggiore umanità pur nella reciproca diversità, per rimanere fedeli al di là delle difficoltà e degli imprevisti, per imparare a dialogare, cioè a mettere in mezzo alle nostre parole (dia–logos=in mezzo alle parole) la ricerca della compassione, della salvaguardia dei diritti reciproci, dell'unità e della giustizia. E' questa la missione sacra che tutti dobbiamo svolgere. Possiamo conservare icone, imbalsamare memorie antiche, difendere manufatti di valore, ma siamo discepoli di Gesù se ci impegniamo a far vivere gli uomini nella dignità e nell’autonomia di pensiero(perché non sapete giudicare da voi stessi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, afferma Gesù nel vangelo di Luca), liberi da violenze e manipolazioni. Per questo mi ero fatto prete. Questo sognavo di fare come discepolo di Gesù.
Quindi è la vita, il sacrificio!
E' la vita il primo sacramento. Posso credere in Dio, ma se disprezzo la sua opera più evidente, più reale, più quotidiana che è la vita, è come se lo bestemmiassi continuamente. Per me Gesù è colui che ha reso sacra la vita terrena (si è sacri-ficato) perché vedessimo nella vita la paternità di Dio, capissimo che il quotidiano è luogo dove noi Lo incontriamo, che il reale è da conoscere, accettare, trasfigurare. Sì, Il tempo galoppa, la vita sfugge tra le mani. Ma può sfuggire come sabbia oppure come una semente, diceva Thomas Merton. Gesù è stato la semente, la più eccezionale semente che ha fatto rifiorire questo mondo. Pensiamo alla Lex aurea che quasi tutti presentano come Lex Argentea: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Lui invece ha detto: Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. E ha anche aggiunto qualcosa di inimmaginabile e incredibile: Qui sta tutta la Torah e i Neviim, cioè tutta la religione. Perché non scandalizza nessuno questa sua frase? Perché viene beatamente accettata? Eppure è rivoluzionaria perché riconduce la religione aI suo alveo più logico e naturale: quello della uguaglianza dei diritti umani, quello della comunione tra le persone, quello del sentirsi legato (re-ligare) a tutti come fratelli, come partners, come coinquilini dello stessa casa comune. Certo occorrerebbe prima prendere atto che quando siamo bambini, i grandi hanno approfittato della nostra fragilità per trasmetterci i loro dogmi e pregiudizi, i loro preconcetti e rancori, i loro rimpianti e rimorsi, le ferite e le violenze subite, le umiliazioni patite e la propria visione moralista o formale del mondo. E si fa fatica a liberarci di questi fardelli, anche perchè sono stati dettati dalle loro credenze e dalla loro retta intenzione. Se poi i catechisti continuano a narrare sempre e solamente il secondo racconto della creazione narrato nella Genesi (mitico e maschilista) e non il primo, non possiamo meravigliarci che i nostri piccoli crescano misogeni e si credano padroni del mondo (se Dio è maschio, il maschio è dio). Il primo racconto è, invece, così chiaro, limpido e struggente. Siamo esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, maschi e femmine. Perché, in Lui, aggiungo, se c’è la mascolinità, ci deve essere anche, naturalmente e pienamente, la femminilità.
Come impatta tutto questo nella vita cristiana?
Invece di fare tanta catechesi, non sarebbe ora che facessimo un po' di scuola di umanità, di perdono e di solidarietà ai battezzati? La nostra religione è spesso trasmessa fondandola sulle visioni e sulle apparizioni, sui miracoli e su segni straordinari nel cielo. Dovrebbe essere fondata, invece, su tutte le parole pronunciate da Gesù e sulla bontà intrinseca delle opere di Dio. La parola di Gesù più significativa per me è Luca 11,13: Il Padre darà lo Spirito a quelli che glielo chiedono. Chiediamogli continuamente lo Spirito per non cadere nella menzogna e nella paura che non sono mai stati accomunati ai sette vizi capitali. Ma lo sono, eccome. Sarà per questo che quando parla qualche occidentale non sappiamo mai se ci sta davvero dicendo la verità? Dio è un pezzo di pane che si fa mangiare, non un orco che divora i suoi figli per capriccio o per vendetta. Ogni gesto che fa nei nostri confronti è impacchettato dall'amore e con l'amore. Non è irenismo questo, è realismo. Non è illusione, ma certezza assoluta. Se ogni fiocco di neve è stupendo nella sua diversità è perché Dio è prodigo, è illimitato nella sua tenerezza, incondizionato nel suo amore. Il rito è lo strumento, non la realtà. Le cerimonie sono la cornice, non il quadro. Le tradizioni spesso sono solo folclore e nulla più. L'essenziale è non bestemmiare la vita, salvarla dalle invasioni barbariche di chi ci obbliga a guardare costantemente indietro e ci vieta di aprire bene gli occhi sull'oggi, di chi in nome del passato uccide il presente. Le persone hanno bisogno di sapere che l'Eucarestia è l'opportunità massima per imparare a diventare umani, per riprendere in mano la propria vita, per imparare a giocarsi, sulla scia di Gesù, per qualcosa di grande e di eterno.
Quindi è un incontro
Sì, un incontro umano dove il sacramento è la Vita, l'agente sacramentario per eccellenza, perché tutto è grazia, tutto è gratuito, tutto è dono. Origene citava questo agraphon di Gesù: Siate cambiavalute abili. Ecco l'opportunità che vita mi offre: diventare responsabile, cioè abile nella risposta in modo da far fruttificare al massimo i doni ricevuti. Ci devo mettere tutto il mio ex opere operantis perché Lui ci ha messo il suo ex opere operato. Il sole è gratis: il partner del sole sono io, ma devo aprire gli occhi per essere inondato dalla luce. Piedi per terra e occhi bene aperti davanti a noi: questo credo che sia stato l'insegnamento del Messia. Il Padre ci vuole partner nella creazione e nella trasformazione di questo mondo. Perchè allora dobbiamo disprezzare il nostro partneraggio? Se Lui ci ha dato il potere di creare qualcosa o qualcuno (pensiamo a una figlia, a un figlio) che altrimenti non sarebbe mai esistito, ciò mostra l'enorme considerazione che Dio ha per gli umani. L'educazione avuta in famiglia e, a volte, anche nella religione, spesso fa di noi un pezzo di marmo insensibile al bene e alla solidarietà, ma Dio non perde la speranza di trasformare il nostro cuore di pietra in un cuore di carne. La vita, se tieni aperti gli occhi, può riuscire a modellare in meglio la tua esistenza, aprendola alle esigenze della giustizia e della fratellanza. Perché Dio è umano. I testi lo dicono: Riconosceranno che siete miei discepoli se siete umani. E Gesù parlando col giovane ricco gli cita solo i comandamenti che riguardano i rapporti con gli umani, non quelli con Dio. Se sono attento davvero alla vita, presto o tardi sarò messo nell'occasione di incontrare l'Autore della vita. Ma se non sono connesso con Dio, tantissime volte correrò il rischio di essere connesso con le teorie su Dio, non con la sua realtà e con la sua essenza. Dovremmo fare come Gesù che non ha mai inventato teorie e che quando ha detto che Dio è Padre ha chiamato a testimonianza i gigli del campo e i passeri del cielo. Siamo qui per fare una vita bella, buona e felice, come l'ha fatta Gesù. Una vita, certo, segnata dalla fragilità, ma più ancora dalla creatività. Una vita che è incontro con il limite, ma che è anche anelito incessante all'infinito. Essa ci è donata gratuitamente perché noi impariamo a donarla gratuitamente. E' imperfetta perché noi la miglioriamo e la completiamo. E' espressione della nostra creaturalità, ma anche della nostra somiglianza con Dio. E' preda dei serpenti tentatori, ma è anche l'opportunità somma che abbiamo di cominciare a realizzare la profezia del terzo capitolo della Genesi. Quella che riguarda noi, la stirpe di Eva, chiamati da Dio a schiacciare una volta per tutte la testa dello stupido serpente ingannatore.
Intervista a cura di Silvia de Todaro e Luciano Mazzoni Benoni